Lunedì, 23 marzo / 2018
– di Francesca C. –
Redazione [...]
Lunedì, 16 ottobre/ 2017
– di Roberto Pecchioli –
Redazione Quieuropa, Roberto Pecchioli, Separatismo catalano, il male dei separatismi, liberalismo
La verità sulla vicenda separatista catalana – 2
– Convertiti sospetti: liberalisti e progressisti
– Una fonte dottrinale avvelenata e relativista
Come mai i progressisti predicano l'indipendentismo?
Il male intrinsceco dei popoli separatisti e la differenza tra
democrazia procedurale e democrazia sostantiva
di Roberto Pecchioli / Seconda Parte
Causa indipendentista: convertiti sospetti
Barcellona, Madrid – di Roberto Pecchioli / Sergio Basile – Nella prima parte di questo elaborato (vedi qui Marx, Kalergi e la vicenda catalana) abbiamo affrontato le questioni relative alla sfida indipendentista della Catalogna dal punto di vista della storia nazionale spagnola e delle imprecisioni, delle bugie e dei luoghi comuni apparsi sui mezzi di comunicazione italiani i cui commenti si sono rivolti maggioritariamente con sorprendente simpatia alla causa separatista. I tanti indignati che si stracciarono le vesti di fronte all’innocuo “tanko” dei venetisti in Piazza San Marco, con l’invocazione inflessibile di pene severe per gli attentatori all’unità italiana
si sono convertiti con velocità sospetta
alla causa dei nazionalisti barcellonesi,
una sorta di Omaggio alla Catalogna con un ritardo di 80 anni
rispetto al libro di George Orwell durante la guerra civile spagnola.
Si rende tuttavia necessario andare oltre la cronaca di questi mesi e giorni, e persino oltre la necessaria chiarificazione dei termini del conflitto. Come sempre negli eventi importanti, c’è di più, e riguarda tutti, almeno in Europa. La prima considerazione riguarda il rapporto tra legalità e legittimità. Nessuna costituzione contempla la distruzione o il frazionamento del territorio di cui è legge fondamentale. Dunque, è evidente che il referendum imposto a risicata maggioranza nel parlamento regionale catalano viola la costituzione spagnola e non poteva che essere respinta dai tribunali e dalle istituzioni. Del resto, se analoga sfida arrivasse, poniamo, dal consiglio provinciale di Bolzano, essa confliggerebbe con l’articolo 4 della nostra legge fondamentale che dichiara una e indivisibile la Repubblica ed i responsabili sarebbero accusati di reati gravissimi.
I progressisti predicano l'indipendentismo?
Sorprende quindi che tra i neo patrioti catalanisti di casa nostra ci siano coloro che, da innumerevoli pulpiti progressisti non smettono di cianciare di legalità, e non pochi che, da destra, si ammantano di “legge e ordine”. Di più,
è assurdo che la simpatia per le iniziative catalane
provenga dai sostenitori del positivismo giuridico,
che negano conflitti tra ciò che è legittimo e ciò che è legale,
anzi propendono per l’inesistenza di diritti o leggi naturali.
Noi osserviamo che è del tutto legittima l’aspirazione di alcuni – o molti – catalani all’indipendenza, ma che essa non può essere richiesta e tanto meno conseguita all’interno dell’apparato giuridico vigente. Nei grandi momenti della storia sono la volontà prevalente unita alla forza di farla valere che cambiano la realtà. Il resto sono sogni, astrazioni, utopie prive di senso. Nel caso delle istanze indipendentiste di molti popoli, è interessante l’opinione del maggiore esperto mondiale del settore, il giurista, storico e sociologo americano Ryan Griffiths,(vedi foto in copertina – prima grande a sinistra) autore di un libro fondamentale The Age of Secession, l’età della secessione. Dopo aver preso atto che il numero di Stati riconosciuti come indipendenti è in aumento– attualmente sono oltre 190 –
Griffiths compila un elenco di popoli, regioni, territori
in cui operano movimenti secessionisti o indipendentisti:
ne individua almeno 50 e molti sono nel nostro piccolo continente.
L’elemento più importante del pensiero geopolitico di Griffiths, che lo avvicina al realismo critico, è la considerazione che per sperare nel successo della causa separatista occorrono due presupposti fondamentali: il primo è il consenso di una grande maggioranza di quel popolo – l’autore parla di almeno l’80 per cento – e il riconoscimento internazionale. Il Kurdistan è certamente concorde sulla propria indipendenza, ma il divieto di Iran, Turchia, Irak e Siria la esclude, insieme con la cautela ostile della cosiddetta comunità internazionale.
La Catalogna non è una colonia! Anzi!
Nel caso catalano, manca certamente una volontà concorde dei cittadini e sussiste il ragionevole dubbio che non ci sia neppure una maggioranza numerica a sostegno della pretesa nazionalista. Chi invoca il diritto all’autodeterminazione, poi, dimentica che, in termini di legalità internazionale, esso vale per territori sottoposti a colonizzazione e/o impediti ed esercitare diritti politici di rappresentanza.
Immaginiamo che neppure il più accanito separatista catalano
possa sostenere che la sua terra vive in condizione coloniale
all’interno della Spagna,
mentre i cittadini hanno pieni diritti politici e siedono nel parlamento spagnolo (le Cortes) ed in quello europeo. Inoltre,
l’autonomia delle comunità autonome iberiche
è, per unanime valutazione, la più ampia tra quelle vigenti in Europa,
e quella attribuita al Paese Basco ed alla Catalogna
supera gli statuti delle altre 15 regioni,
riconoscendo ampiamente specificità e diritti storici e linguistici.
Inesistenti diritti di autodeterminazione
In Italia ed in Europa, al contrario, si continua ad insistere su inesistenti e confusi diritti di autodeterminazione la cui accettazione generalizzata precipiterebbe nel caos il mondo intero e finirebbe per essere risolta con l’uso della forza (legale e insieme legittima) degli Stati. Da alcune parti si accusano i sostenitori degli Stati nazionali di negare alle comunità territoriali i diritti di sovranità che rivendicano per sé. E’ falso. Indipendentemente da ogni altro argomento a favore della persistenza e della sovranità degli Stati, si rende necessario ricordare l’enorme differenza tra unità ed uniformità.
Nessuno nega che all’interno di moltissimi Stati esistano popolazioni
con idee, religioni, convinzioni civili, lingue e modi di vivere distinte.
Finiti gli imperi per mano di Stati nazionali accentratori
dominati da oligarchie economiche interessate solo ad allargare e liberare spazi al mercato,
gli Stati contemporanei hanno largamente riconosciuto ed accolto le differenze interne.
Colpisce, semmai, che si rivolgano alla Spagna le critiche che dovrebbero investire
la Gran Bretagna (Scozia ed Irlanda) e la Francia, la cui politica centralista ha soffocato
e ridotto al lumicino le molte specificità interne sin dai tempi di Jean Bodin e dei re Luigi.
Poi è arrivata la “nation”, la Repubblica dei giacobini e le cose sono ulteriormente peggiorate, sino alla stretta di Napoleone III. Chi ricorda che in Francia ci sono (o c’erano…) gli Occitani, i Bretoni, i Corsi, i Fiamminghi, i Baschi del Nord, i catalani del Rossiglione, i tedeschi dell’Alsazia e della Lorena, gli italiani di Nizza? Tutti frullati nella mistica rivoluzionaria giacobina della nazione unica di cittadini identici, personificata nell’immagine di Marianne e nella scuola laica e nazionale della legge Ferry d’inizio Novecento.
I liberalismi e l'annullamento delle differenze
Il problema, come sempre da oltre due secoli, è nella tenace volontà dei liberalismi (faccia speculare dei socialismi: appartenenti ad un'unica medaglia – Ndr) di ogni tendenza ad azzerare le differenze.
Margaret Thatcher, la più coerente interprete del liberalismo europeo,
arrivò a dire che riconosceva solo gli individui.
In questi giorni, una eurodeputata progressista spagnola, Beatriz Becerra,
ha usato l’argomento più sconfortante per difendere l’unità nazionale spagnola,
asserendo che non esistono i popoli, ma solo i cittadini.
Opinione speculare e sovrapponibile a quella della Lady di Ferro
da uno schieramento politico solo apparentemente opposto.
(se è vero com'è vero che liberalismo e socialismo tramano gli stessi obiettivi,
sia pur dietro maschere differenti – Ndr)
Patriottismo vs nazionalismo
E’ assai difficile trovare un equilibrio, e persino una comune definizione per concetti tanto importanti e controversi come cittadinanza e nazionalità, popolo e nazione. I popoli esistono, i cittadini molto meno, e non c’è bisogno di ricorrere all’insegnamento di De Maistre nelle Serate di San Pietroburgo. Del pari sono importanti le persone e non gli individui solitari e sradicati cari alla Thatcher ed a liberali e progressisti di ogni tendenza. Ciò che ci preme è distinguere l’amore naturale e bellissimo per la propria gente e la terra natia – ovvero il patriottismo – dal nazionalismo che esclude, sospetta, istituisce preminenze, vive nell’attesa di ristabilire un’età dell’oro di purezza ed uniformità mai esistita. Queste sono purtroppo le caratteristiche del nazionalismo catalano di oggi, assai diverso da quello del passato, che aspirava a farsi avanguardia della patria comune spagnola, orgoglioso di sé, della lingua e fiero delle qualità del suo popolo. Sbagliò la Spagna nelle occasioni in cui maltrattò le aspirazioni e le istanze di quei connazionali così diversi, ma ha saputo rimediare. La Catalogna sfigurata dei nazionalisti rabbiosi e xenofobi aspira a ricreare il plumbeo conformismo, l’uniformità chiusa e settaria che rimprovera ai suoi avversari del passato. A chi rimprovera al campo sovranista lo statalismo, rispondiamo che
i nuovi Stati separatisti possono riprodurre i medesimi difetti
di coloro a cui si sono ribellati:
centralismo, esclusione sociale, disprezzo per l’altro.
Non vogliamo citare l’esempio balcanico, ma va ricordato che Stati pienamente accolti nell’Unione Europea, come le repubbliche baltiche considerano non cittadini, o cittadini di serie B gli abitanti di origine e lingua russa.
Che ne faranno gli allucinati nazionalisti dell’Estelada
di almeno tre milioni di “cattivi catalani”,
come dicono loro, riferendosi a coloro che
non condividono la separazione dalla Spagna?
Patriottismo costituzionale: l'unico "ammesso"
Mentre le imprese senza patria fuggono dalla Catalogna, poiché l’unica bandiera che riconoscono è quella del denaro, un altro elemento di riflessione riguarda il patriottismo costituzionale, l’unico permesso al tempo nostro. Anche su questo punto, la vicenda catalana e spagnola ha qualcosa da insegnarci.
A partire dalle teorizzazioni di Jurgen Habermas,
in Italia anticipate dal positivismo giuridico di Norberto Bobbio,
del Partito d’Azione e della scuola torinese,
enfatizzate nel corso della presidenza Ciampi,
un'unica forma di amore di sé
era ammessa nei cenacoli del potere accademico e culturale,
il patriottismo costituzionale.
Esso consisterebbe nell’amore per le “buone” leggi ed istituzioni del Paese, poste a presidio dei cittadini e dello Stato di diritto. Nessun essere umano normale ama le leggi o la costituzione più della propria casa, della propria gente, della propria terra. Il sentimento patrio è prepolitico, se vogliamo persino prelogico, per usare un termine caro all’antropologia di Lévy-Bruhl, tocca le corde dell’istinto, dell’anima. Personalmente, amiamo l’Italia nonostante il presente e le sue leggi, ma se anche le considerassimo perfette, l’oggetto del sentimento di appartenenza è la terra nativa, la comunità in cui ci siamo formati, la lingua che ci sgorga in bocca, la gente che sentiamo nostra.
La gente difende la Spagna, non la "Costituzione"
Citiamo alcuni versi di Umberto Saba a proposito di Trieste, la piccola patria del poeta: “Intorno circola ad ogni cosa /un'aria strana, un'aria tormentosa, l'aria natia.” Nessuna legge, istituzione o costituzione fa vibrare le corde dell’anima, la Patria e la bandiera sì. Per questo fanno sorridere taluni commenti sulla rinascita prepotente del sentimento nazionale spagnolo di queste settimane. Pare che la gente scenda in piazza solo per amore della costituzione del 1978. Non è così, dalla nebbia della Galizia alla luce andalusa ai campi desolati di Castiglia, ciò che difendono i cugini iberici brandendo la bandiera comune è un senso della vita, una convivenza che risale a secoli e secoli,
un’unità sostanziale che ha accolto le tante differenze
di un piccolo continente fattosi Patria.
Tant’è che urlano a squarciagola “io sono spagnolo, spagnolo, spagnolo”,
lo ripetono tre volte per convincere innanzitutto se stessi
e poi un ceto politico spregevole.
Hanno tolto loro persino l’inno nazionale, che ha solo una musica.
Ma i popoli cantano nella gioia e nella tragedia, e gli spagnoli hanno scelto con istinto sicuro un pasodoble degli anni 70, un successo di Manolo Escobar, cantante che noi definiremmo nazionalpopolare, “Que viva Espana”. Nessuna costituzione, nessuna istituzione muove e commuove quanto una bandiera e una canzone. Lo sanno bene gli stessi catalani e il loro inno sanguinario Els Segadors, che parla di un buon colpo di falce sulla testa dei nemici del 1714, spagnoli di altre regioni.
Il popolo dei guanti bianchi
Un osservatore ha colto nel segno, affermando che in Spagna si è perso uno Stato, ma è rinato un regno. Noi non possiamo neppure coltivare questa speranza: lo Stato italiano è disperso da tempo, tasse a parte, e nessuno scenderebbe in piazza spinto da un discorso di Sergio Mattarella. Esiste anche un rovescio della medaglia: non tutti vogliono schierarsi, specie oggi, in un mondo tanto diviso e tanto incline al soggettivismo. E’ un diritto anche non prendere partito, e rifuggire dalle appartenenze, dai vessilli, dalle posizioni nette. Una donna, però, non può essere incinta a metà. Quando i tempi si fanno duri, non si può essere neutrali né equidistanti. L’Occidente contemporaneo, al contrario, ha santificato l’attitudine falsamente mediana, la litania insopportabile del dialogo ad ogni costo. Anche su questo punto, la presente vicenda spagnola ci insegna molto.
Numerose manifestazioni hanno percorso il Paese
con gente vestita di bianco e con guanti bianchi.
Pacifisti ad oltranza o già arresi al peggio, convinti di essere gli unici riflessivi, razionali e giusti, alieni ai pensieri forti, nemici di tutte le bandiere e di ogni posizione definita, chiedono alle parti di “parlare”. Uno spagnolo dell’Ottocento, Donoso Cortés dette della nascente borghesia la più fulminante delle definizioni: la clase discutidora. Parlare, discutere, dialogare, non prendere decisioni. Logorrea elevata a criterio, sino allo sfinimento. Ma il dialogo è un metodo, non una soluzione. Per di più, qualsiasi dialogo presuppone che gli interlocutori abbiano codici comuni, diano alle parole ed alle idee lo stesso significato, condividano un minimo di spazio comune. Che fare, infine, se il dialogo naufraga? Il dilemma è irrisolto, come tutte le situazioni nelle quali l’uomo europeo ed occidentale contemporaneo è posto di fronte alle scelte gravi. Parliamo, e poi?
Non tutto può essere messo ai voti
L’ultima geniale soluzione è mettere tutto ai voti, anche ciò che per definizione è permanente, come la patria, plebiscito di tutti i giorni, secondo la suggestiva formula di Renan.
No, non tutto può essere sottoposto a giudizio
con il criterio del cinquanta per cento più uno,
l’arbitrio di maggioranze capricciose, volubili e manipolate.
L’idea che tutto, assolutamente tutto possa essere sottoposto a verdetto popolare
è tanto pericolosa e perversa
che non per caso ha generato gli orrori più spaventosi del secolo passato.
Una fonte dottrinale avvelenata e relativista
Quando il Puigdemont di turno si indigna teatralmente che i tribunali gli neghino la facoltà organizzare un referendum che apre la porta alla liquidazione di una nazione, matrice e garanzia dei diritti, sentimenti e libertà della generazione presente, ma anche di quelle future, attinge ad una fonte dottrinale avvelenata la cui origine remota si trova nei sofisti greci, poi sistematizzata da Hobbes (vedi foto: seconda grande a sinistra), rafforzata da Hume (vedi foto: prima grande da destra), travisata nell’interpretazione della volontà di potenza di Nietzsche (vedi foto: seconda grande da destra), che ispira gli esistenzialisti e soggioga i postmoderni. Soprattutto colloca le peggiori mostruosità fuori dal contesto assiologico che dovrebbe informare ogni norma.
La sfida è recuperare una disposizione del cuore e della ragione
che ricerchi la verità permanente, e respinga al contrario il potenziale distruttivo
di una visione secondo cui siamo soltanto un fascio di pulsioni e sensazioni
al cui servizio e capriccio porre la ragione strumentale.
Secondo tale concezione, la nostra libertà di scelta è totale, giacché ogni morale non è che una pietosa fantasia. Siamo un lampo che sorge dal nulla e termina nel nulla, di conseguenza tutto ci è permesso e uniche leggi accettate sono l’assenza di limiti e il principio di piacere. Da questa prospettiva letalmente relativista, non ci sono limiti alla volontà generale abilmente orientata dai demagoghi di turno.
Democrazia procedurale vs democrazia sostantiva
Tale concetto di democrazia puramente procedurale
contrasta con quello di democrazia “sostantiva”.
Il primo (democrazia procedurale) la considera un mero strumento di presa delle decisioni e di scelta momentanea, senza che incorpori elementi di carattere pre politico e pre-giuridico. Così, ogni legge o misura di governo che emani dalla maggioranza del momento deve essere data per buona senza entrare in alcuna altra considerazione. Il secondo (democrazia sostantiva), in cambio,
postula l’esistenza di alcuni principi di ordine generale,
come la dignità intrinseca di ogni uomo
e la presenza di un confine tra il bene ed il male
in accordo alla legge morale naturale
presente nella coscienza personale e comunitaria.
Tali norme non scritte trascendono il diritto positivo
e lo stesso ordinamento costituzionale.
Il complesso di regole e vincoli derivanti dall’ordine naturale delle cose e da una concezione della persona come titolare di doveri, diritti e libertà fondamentali che non possono essere negate da alcun potere è parte inseparabile della democrazia sostantiva e sbarra il passo alla tirannia, sia quella di un dittatore o quella collettiva di una maggioranza che opprime o vessa minoranze indifese.
Il male dei separatismi odierni
Allorché i separatisti di oggi – esattamente come ogni radicalismo che deforma la realtà e disprezza l’alterità – eccitano i bassi istinti delle loro basi sociali chiamando all’odio verso un nemico divenuto capro espiatorio e le convincono che la loro causa degradata a pulsione e desiderio incontrollabile deve passare al di sopra di ogni criterio morale, ciò conduce a situare al di sopra di tutto presunte identità vulnerate ( o interessi calpestati, o altre credenze),
trascinando tutti in uno spazio di anomia selvaggia,
una foresta invivibile nella quale i dissensi sono risolti con la violenza,
la prevaricazione, l’emarginazione coatta o l’ingiustizia che si fa legge scritta.
Pertanto, l’insistente e ipocrita rivendicazione della democrazia formale, da chiunque avanzata come alibi, maschera, negazione della responsabilità, ad altri numerosi delitti postmoderni ne aggiunge uno specialmente grave, per quanto non contemplato esplicitamente nei codici penali: non invano fu scritto Duemila anni fa che
il peggior peccato è quello contro la verità.
Roberto Pecchioli (Copyright © 2017 Qui Europa)
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