– di Matteo Mazzariol / Presidente Movimento Distributista Italiano –
Redazione Quieuropa, Matteo Mazzariol, Distributismo, Sergio Marchionne, Fiat, Finanza
Marchionne: la scomparsa di un uomo, la
permanenza di un sistema
Breve storia della FIAT e di un sistema perverso che
incentiva la società servile
di Matteo Mazzariol / Presidente Movimento Distributista Italiano
Storia del "Modello FIAT"
Torino – di Matteo Mazzariol / Presidente Movimento Distributista Italiano – Sergio Marchionne, l’amministratore delegato di FCA, ex FIAT, è vivo ma le sue condizioni, a quanto risulta dai bollettini medici, sono molto gravi ed irreversibili, tanto da escludere al 100% la possibilità di un suo ritorno. I giornali e gli opinionisti si stanno sbizzarrendo in questo momento in un pot-pourri di esternazioni e giudizi sull’uomo e la sua opera, cosa che non intendiamo fare. Ciò che vogliamo invece fare sono alcune considerazioni generali di fondo sul ruolo delle grandi industrie nel sistema economico-sociale contemporaneo, con particolare riferimento alla FIAT. La storia della FIAT rappresenta infatti la versione italiana di un fenomeno mondiale: il rapporto tra grandi aziende o multinazionali da una parte e Stato, lavoratori e cittadini dall’altra. Il modello è molto semplice e si può condensare in una frase già nota a tutti:
privatizzazione degli utili e socializzazione delle perdite.
La FIAT non nasce infatti con la famiglia Agnelli ma dall’ingegno di un meccanico cuneense che costruiva velocipedi, tale Giovanni Battista Ceirano (foto piccola in alto a destra), che l’11 luglio 1899 a Torino riuscì a radunare intorno alla sua iniziativa un gruppo di una decina di persone, tra nobili, aristocratici ed imprenditori, che, grazie all’aiuto finanziario del conte Emanuele Cacherano di Bricherasio, fondarono la Società Anonima Fabbrica di Italiana di Automobili – Torino (F.I.A.T).
Fiat, Ford e Alfa Romeo: un pò di storia
Lo stesso Ceirano fu subito estromesso per questioni di rango e di risorse ed al suo posto fu chiamato un imprenditore agricolo non nobile ma con grande disponibilità di denaro: Giovanni Agnelli senior (prima foto grande da sinistra).
Negli anni successivi Giovanni Agnelli senior
riuscì progressivamente ad estromettere ogni concorrente
nella gestione della nascente impresa, con
azioni spregiudicate che richiamarono anche l’attenzione della magistratura.
Le accuse di aggiotaggio e truffa ed alcune morti di competitori più che sospette
portano nel 1911 ad un processo e solo la forte pressione
del massone Vittorio Emanuele Orlando, allora ministro di Grazia e Giustizia,
riuscì ad evitare il peggio per il fondatore della dinastia Agnelli.
Eliminata la concorrenza degli altri pretendenti al controllo della FIAT, gli Agnelli si concentrarono anche nell’acquisire il consenso, acquistando nel 1926 il giornale la Stampa di Torino, dalle cui pagine in precedenza erano partiti i principali
attacchi contro i comportamenti poco trasparenti della famiglia.
Si dimostrarono inoltre abili diplomatici nell’intessere rapporti con il potere politico e sposarono per interesse la causa fascista.
Fu proprio Giovanni Agnelli senior a fare enormi pressioni su Mussolini
per eliminare la temibile concorrenza americana della FORD,
che riusciva a pagare quattro volte tanto gli operai
ed a produrre automobili di buona qualità a minor costo.
La FIAT sopravvisse quindi a tale concorrenza solo perché il regime stabilì fortissimi dazi sulle importazioni di automobili dall’estero ed alla fine impose la chiusura delle fabbriche FORD in Italia. Continuando sulla strada della collusione con il potere politico, Giovanni Agnelli senior si oppose fortemente al rilancio delle infrastrutture ferroviarie e spinse per la costruzione, con soldi pubblici, dei grandi assi autostradali: nel 1932 fu così inaugurata la Torino-Milano. Di più: lo stesso Giovanni Agnelli senior riuscì ad ottenere i favori del fascismo, chiamando tra l’altro la sua vettura popolare Balilla (foto in basso a destra), come il nome di un grado della gioventù fascista, ma richiese ed ottenne in cambio la concessione di una massiccia agevolazione fiscale, senza la quale non sarebbe stato in grado di produrre tale autovettura. Rimaneva l’ultimo grande problema della concorrenza interna: l’Alfa Romeo, frutto dell’ingegno dell’ingegnere napoletano Romeo, sfornava veicoli altamente competitivi e molto apprezzati sul mercato nazionale ed internazionale, ma non era riuscita, a differenza della FIAT, a godere di altrettanti privilegi da parte del governo. Quando sopravvenne la crisi del ’29 e dovette fare fronte agli ingenti debiti causati dal crollo dei fatturati, l’Alfa Romeo fu rilevata dall’IRI e divenne pubblica.
Cambi di casacca e avvicendamenti di leadership
La crisi del regime segnò il passaggio di casacca da parte della famiglia Agnelli, che incominciò ad intessere rapporti con gli americani ed i partigiani. Alla fine della guerra, cambiati gli scenari politici, Giovanni Agnelli junior partecipò nel 1952 alla fondazione del Gruppo Bilderberg, avviando un fruttuoso rapporto di collaborazione, fatto anche di parentele familiari, con vari gruppi finanziari internazionali, tra cui la famiglia Rothschild ed Elkann. Continuando su questa linea, si arrivò al 2004, anno in cui, dopo alterne vicende, la FIAT si ritrovò in una condizione pre-fallimentare e Sergio Marchionne, divenuto amministratore delegato, iniziò un’intensa attività volta a "salvarne i capitali", internazionalizzando ulteriormente l’azienda fondendosi con Chrysler, trasferendone le sedi legali a Londra ed ad Amsterdam ed operando una serie di azioni discutibili (molto discutibili – Ndr) dal punto di vista sindacale-lavorativo. Nel 2014 la FIAT si trasforma quindi in FCA (Fiat-Chrysler Automobile) (1).
(1) Cfr.: Storia (poco narrata) degli Agnelli
Inconsistenza teorica del capitalismo
I proprietari di maggioranza di FCA rimangono comunque i membri della famiglia Agnelli, ormai parte di un’estesa rete di famiglie di super-ricchi, la maggior parte delle quali imparentate tra di loro. Gli Agnelli posseggono il 30.7% delle azioni della FCA tramite la compagnia Exor, con sede legale in Olanda. Sono loro che hanno eletto ed eleggono gli amministratori delegati, i vari Romiti, Morchio, Marchionne, sono loro che detengono la carica della presidenza e la maggioranza del consiglio di amministrazione. Sono loro, in una parola, che detengono il potere di decidere. Questo breve, sintetico e per forza di cose incompleto quadretto storico, che si riferisce alla nostra piccola Italia ma che potrebbe essere esteso ai grandi paesi in cui si è sviluppato il capitalismo, è comunque sufficiente a far chiarezza sulla
totale inconsistenza teorica e pratica del capitalismo stesso,
che si basa sul presupposto che la mano invisibile del mercato
sia la precondizione sufficiente e necessaria per raggiungere il benessere
e la prosperità economica.
Come abbiamo visto invece, la mano invisibile del mercato consente solo ai più furbi, ai più scaltri, ai più ammanigliati con lo Stato e con il potere politico (e le varie consorterie massoniche – Ndr) di imporsi sugli altri e sulle loro competenze reali, accumulando ricchezze enormi sfruttando il lavoro e le capacità produttive dei lavoratori. La FIAT sarebbe già scomparsa più volte nel corso della sua relativamente breve vita, circa 119 anni, se non ci fosse stato in numerose circostanze l’intervento statale a salvarla o tutelarla.
Visione perversa e distorta del mondo lavorativo
Lo stesso vale per la maggior parte delle grandi aziende e multinazionali in giro per il mondo: senza l’intervento statale o l’utilizzo di escamotage contabili, finanziari e fiscali che rappresentano una vera e propria concorrenza sleale nei confronti delle tante piccole imprese che non possono goderne, queste grandi imprese sarebbero destinate al tracollo, incapaci come sono, per la loro mole, di adattarsi agevolmente ai cambiamenti del mercato e delle condizioni economiche. Né vale il ragionamento che sia buono e giusto salvare tale grandi aziende perché da esse dipende il destino lavorativo di milioni di persone. Tale ragionamento infatti sottende una visione distorta e perversa del mondo lavorativo, secondo cui chi lavora è per necessità sempre e comunque “dipendente” da qualcun altro che fornisce il capitale per poter esercitare la propria azione produttiva,
una visione che da cioè per scontato ed ineluttabile
la separazione tra capitale e lavoro e tutte le nefaste conseguenze che da esse derivano,
tra cui la perdita sostanziale della libertà d’iniziativa,
la limitazione della creatività individuale,
la perdita del diritto a godere pienamente dei frutti del proprio lavoro,
tutte caratteristiche che distinguono il lavoro umano da quello servile.
Dalla FIAT non dipende il destino di migliori di lavoratori ma il profitto che una minoranza di persone, molto spesso incapaci e poco preparate, traggono dal lavoro di centinaia di migliaia di uomini. Non è equo e giusto che le capacità lavorative di tutti gli operai, i tecnici, i professionisti che nel corso di diverse generazioni, trasferendosi spesso da città e paesi lontani, hanno dedicato la loro intera attività lavorativa alla FIAT siano andate a riempire le casse di un pugno ristretto di oligarchi, lasciando spossessati, privi della proprietà dei mezzi di produzione ed esposti ad una precarietà continua la massa dei lavoratori stessi.
Ragionevolezza del bene comune
Qual è dunque la soluzione? Il Distributismo non ha dubbi. Si tratta di tornare alla ragionevolezza ed al senso comune. Di fronte alla numerose crisi della FIAT un governo illuminato ed ispirato davvero al bene comune avrebbe dovuto non finanziare i pochi capitalisti ma finanziare le tante persone che vi lavoravano, trasformandole da “dipendenti” in protagonisti responsabili ed attivi dei destini dell’azienda, cioè in proprietari, introducendo un’organizzazione del lavoro basata sulla compartecipazione in base alle competenze e favorendo una giusta ripartizione degli utili, rispettando le capacità e l’impegno con una remunerazione adeguata in base ai meriti reali ed
abolendo al tempo stesso le assurdità
secondo cui un amministratore delegato riceve uno stipendio
pari a più di duemila volte quello di un impiegato (2).
Unire capitale e lavoro (accanto alla improcastinabile attuazione della socializzazione della strumento monetario: prospettiva auritiana – Ndr) è l’unica strada per ricomporre le aporie di un sistema folle, che, concentrando le ricchezze e la libertà nelle mani di pochi, condanna la maggioranza ad un destino servile, e l’intera comunità all’impossibilità di sperimentare una prosperità solida e duratura. Le condizioni sopra prospettate sono le uniche strade per riportare equità la dove il capitale tende a trarre un iniquo vantaggio dal lavoro. Dall’equità nasce poi la massima possibile distribuzione dal basso della proprietà produttiva e delle ricchezze e quindi la vera prosperità di una società.
(2) Cfr.: Stipendi dei manager, Sergio Marchionne guida la classifica
L'inganno, il consenso e il vero oppio dei popoli
Nulla di tutto ciò è invece purtroppo è successo nella storia della FIAT
e l’unico tentativo di tutelare i sacrosanti interessi dei lavoratori
si è basato sul vicolo cieco del pensiero di sinistra e social-comunista,
che non ha mai osato proporre il vero cambiamento,
cioè la trasformazione dei lavoratori in proprietari-lavoratori
ma ha solo eventualmente proposto, per fortuna senza successo,
il passaggio della proprietà da una casta di capitalisti – gli Agnelli –
ad una casta di burocrati statali figli della partitocrazia incompetente e corrotta:
non il ritorno ad un mercato davvero libero basato sulle pari opportunità
e la corresponsabilità dei lavoratori-proprietari,
ma l’utopia di un guadagno assicurato indipendentemente dalle reali capacità produttive.
Del tutto grottesco e cinico è poi il tentativo di questa casta famigliare di conquistare il consenso della popolazione non soddisfacendo i bisogni reali delle persone, e cioè diffondendo la proprietà produttiva ed il relativo miglioramento della qualità di vita, ma infiammando gli animi con lo pseudo-conquiste calcistiche, in modo che gli umili operai ed i modesti lavoratori nei loro monolocali claustrofobici possano vivere un’esperienza inconsistente ed illusoria di esaltazione di fronte alle imprese dei vari Higuain, Ronaldo e Dybala: parlo ovviamente della Juventus,
vero e proprio oppio dei popoli gestito sapientemente dalla famiglia Agnelli.
Il nostro povero Marchionne non è stato quindi altro che un piccolo soldatino, pagato a peso d’oro, che ha fatto probabilmente il suo dovere di tutelare il capitale, per definizione apolide, nel modo migliore che le circostanze potessero consentire. La sfida che il distributismo pone agli uomini come lui ed a tutti coloro che sono animati da buona volontà è di ripensare al senso del proprio agire sociale, alla necessità di rimettere l’uomo e la famiglia al centro dell’economia. Non abbiamo altra scelta: o ricominciamo a riunire capitale e lavoro (affermando, altresì, una reale sovranità monetaria in seno a ciascun cittadino-proprietario del proprio danaro – Ndr) o saremo condannati ad una società barbara e servile che potrà consolarsi solo sperando nelle vittorie di Champions League.
Matteo Mazzariol (Copyright © 2018 Qui Europa)
Presidente Movimento Distributista Italiano
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