– di Matteo Mazzariol / Presidente Movimento Distributista Italiano –
Redazione Quieuropa, Matteo Mazzariol, Corporativismo, Dottrina Sociale della Chiesa
Corporativismo: tra retta ragione e Dottrina Sociale
della Chiesa
Incompatibilità tra Corporativismo Cattolico e Corporativismo Fascista
di Matteo Mazzariol / Presidente Movimento Distributista Italiano
Corporativismo e pensiero sociale cattolico
Roma – di Matteo Mazzariol / Presidente Movimento Distributista Italiano – Nella mentalità comune il corporativismo è associato a due fattori principali: le gilde e corporazioni del medioevo – retaggio di un tempo oscuro che fu e che le magnifiche sorti e progressive dell’umanità ha contribuito a cancellare – e l’altrettanto male oscuro, questa volta addirittura assoluto, che è stato sconfitto con la seconda guerra, il fascismo. Tutto ciò ha contribuito e contribuisce tuttora a mettere il corporativismo nel dimenticatoio della storia, vittima di una damnatio memoriae definitiva ed inappellabile. Un’analisi più attenta, seria, competente e veritiera dei fatti e della storia ci porta però in un’altra direzione. Per prima cosa dobbiamo infatti prendere atto che le corporazioni medioevali, a partire dal Mille, furono indubitabilmente un esperimento in cui valorizzazione delle competenze, giustizia sociale, solidarietà e prosperità economica trovarono il loro posto in un amalgama in grado di garantire equilibrio, ordine e fruttuosa convivenza civile non per anni o per decenni ma per secoli, venendo poi progressivamente scardinate dall’emergere prepotente di una visione economico-sociale che mise lo sfruttamento, il profitto e la speculazione ai vertici dell’agire umano (Macchiavelli docet). In secondo luogo va chiarito una volta per tutte che
il fascismo, ideologia peraltro nuova e rivoluzionaria,
non fu in alcun modo il fondatore del corporativismo,
la cui origine origine si perde nella notte dei tempi
e va rinvenuta nell’insopprimibile natura sociale dell’uomo,
tant'è vero che non esiste civiltà degna di questo nome
che non abbia avuto una sua componente corporativa.
Il pensiero sociale cattolico, avviato con Gesù Cristo, approfondito dai Padri della Chiesa, ricapitolato ed arricchito da San Tommaso d’Aquino, formalizzato inizialmente con la Rerum Novarum del 1891 e continuato con la Quadragesimo Anno del 1931, contribuì enormemente a precisare, valorizzare, diffondere e realizzare il principio corporativo. Esiste infatti una ricca e vastissima letteratura di matrice cattolica, presente in tutte le nazioni, con figure di alto spicco quali il Card. Manning e Chesterton in Inghilterra, Von Ketteler ed Heinrich Pesch in Germania, La Tour du Pin in Francia, Toniolo in Italia, solo per citare le più emergenti, le quali delinearono in maniera incontrovertibile, sulla base della retta ragione e della Dottrina Sociale della Chiesa, come
il corporativismo fosse l’unico modello praticabile
per incrementare il bene comune nella società.
Il Codice di Malines, del 1936, frutto dello sforzo congiunto dei maggiori pensatori cattolici del tempo, fu solo uno delle espressioni di questa tendenza.
Corporativismo cattolico e fascista: divergenze
Già durante gli anni del fascismo esponenti illustri del mondo cattolico italiano avevano lucidamente colto la differenza sostanziale e l’incompatibilità di fondo tra corporativismo fascista e corporativismo cattolico, manifestatosi ad onor del vero più sul piano pratico che su quello dell’elaborazione teorica, dove invece si manifestarono punti di convergenza non secondari anche se parziali. L'inconsistenza strutturale del corporativismo fascista fu infatti quella di tentare di accomodare due principi di per sè opposti: un sano corporativismo, basato sulla massima possibile autonomia dal basso e quindi sulla più ampia possibile libertà dei corpi professionali ed intermedi, con il totalitarismo accentratore dello Stato fascista, più affine certamente al socialismo che non alla Dottrina Sociale della Chiesa. Le regole delle Corporazioni fasciste, il loro meccanismo di funzionamento, così pure come i loro vertici, furono quindi espressione non dei loro membri, aggregati secondo un principio di partecipazione e competenza, ma della macchina burocratica dello Stato fascista, svuotando così di ogni significato, funzionalità e vitalità le corporazioni stesse. Ciò che non funzionò non fu il corporativismo in sè ma il tentativo di attuarne una versione deforme e storpiata. Lo scoppio della guerra non consentì inoltre nessun possibile ulteriore sviluppo in senso autenticamente partecipativo.
L'atteggiamento della DC
In un importantissimo libro del 1951, intitolato “Verso il Corporativismo Democratico”, un gruppo di illustri intellettuali cattolici, tra cui il sen. Alberto Canaletti Guadenti, professore dei Pontifici Atenei Lateranensi, il prof. Saverio De Simone dell’Università di Bari, l’insigne giurista Carnelutti – riproposero con forza e convinzione il progetto di un corporativismo democratico, considerandolo l’unica possibile e razionale via per attuare un sistema davvero democratico, in alternativa alla partitocrazia, intrinsecamente incapace di valorizzare adeguatamente i corpi intermedi e distribuire le libertà reali secondo i dettami della Dottrina Sociale della Chiesa. Questo forte richiamo fu fatto ancora una volta sulla base della retta ragione e della plurisecolare insegnamento sociale cattolico ma, per ragioni che meriterebbero da sole un trattato a parte,
fu sostanzialmente ignorato dai vertici della Democrazia Cristiana,
che, gia nel Codice di Camaldoli del 1943,
in netta discontinuità con il Codice di Malines del 1936,
avevano incominciato a mettere in secondo piano, se non ad emarginare del tutto,
il principio corporativo, pilastro fondante della Dottrina Sociale della Chiesa
e del diritto naturale.
Corporativismo democratico e Distributismo
Quanto comunque il vertice del partito democristiano abbia voluto intendere la sua azione politica come una presa di distanza dai principi costitutivi della Dottrina Sociale della Chiesa e come invece un ibrido avvicinamento ad ideologie moderne e progressive come il liberalismo ed il social-comunismo è poi evidente a tutti: basti pensare allo statalismo della politica delle aziende partecipate, copiato in buona parte dal fascismo, all’abbandono di ogni rilancio dell’autonomia politica dei corpi intermedi, tipico degli Stati liberali e socialisti, alla scarsa e flebile opposizione a tutti gli attacchi portati contro la famiglia, al cedimento totale alla partitocrazia. Il Distributismo a questo proposito rappresenta un antidoto invalicabile di fronte a questa perdita di identità rispetto ai valori del cattolicesimo sociale, indicando nel liberalismo capitalista e nello statalismo social-comunista due facce di una stessa medaglia, la tendenza cioè a mantenere capitale e lavoro separati ed a distruggere ogni spazio politico reale, e quindi ogni spazio di libertà vera, che si ponga tra l’individuo e lo Stato e che non sia basato, come i partiti, su meri fattori divisivi ideologici. Per questo il distributismo ha proposto e continua a proporre, in perfetta sintonia con la plurisecolare Dottrina Sociale della Chiesa, il corporativismo democratico come uno dei fondamentali principi guida che deve indirizzare l’azione politica di tutti coloro che si ispirano al bene comune.
Cittadini al centro della vita socio-economica
Ciò che quindi è estremamente urgente oggi è fare un’opera di bonifica culturale che spieghi a tutti gli uomini di buona volontà, cattolici e no, che se vogliano uscire dalla palude della falsa democrazia partitica e partitocratica e ridare, come è giusto che sia, poteri concreti alla gente, se vogliamo cioè instaurare un democrazia vera e partecipata, basata sulle competenza e la responsabilità, e non continuare ad accettare la sua parodia, abbiamo solo una strada: riprendere i principi del corporativismo democratico e trovare le forme concrete attraverso cui esso si possa incarnare nel vivo del nostro tessuto sociale. Ciò non vuol dire creare qualcosa di astratto che non esiste ma semplicemente dare corpo, forma, dignità e consapevolezza politica ha ciò che già esiste, cioè ai milioni di lavoratori e cittadini italiani che ogni giorno cercano di dare il meglio di sè attraverso il loro lavoro, producendo beni e servizi che rappresentano la vera ricchezza della nazione.
Si tratta in sintesi di passare dal cittadino atomo, isolato ed impotente
al cittadino responsabile e libero di poter decidere
tutte le importanti questioni concrete che riguardano la propria vita socio-lavorativa:
si tratta cioè di realizzare sul serio quegli ideali di equità e giustizia sociale
che sono alla base della Dottrina Sociale della Chiesa,
di passare da una libertà fittizia ed ipocrita ad una libertà vera.
In tutto ciò il ruolo dello Stato dovrebbe limitarsi a quello di vigilare sul rispetto del bene comune, creare i contenitori legislativi ed istituzionali in grado di valorizzare al massimo l’autonomia delle gilde o corporazioni di arti e mestieri e dare loro una voce politica. Il primo passo sarebbe quello ovviamente di istituire le corporazioni di arti e mestieri secondo un ordinamento democratico, fissandone le modalità di rappresentanza politica a livello comunale, regionale e nazionale. Nel dopo guerra per esempio era stata abbozzata una proposta di trasformare il Senato in una camera delle corporazioni. Invitiamo quindi tutti coloro che condividano tale visione o vogliano approfondirla ad unirsi al Movimento Distributista Italiano, per dare il loro contributo concreto e fattivo ad un’Italia migliore, basata sul realismo del senso comune e della ragionevolezza e non sulle utopie delle ideologie morte e sepolte dalla storia.
Matteo Mazzariol (Copyright © 2018 Qui Europa)
Presidente Movimento Distributista Italiano
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